Le Cosmicomiche narrano, in una sorta di fantascienza all’incontrario, della storia dell’origine dell’universo, di nebulose, di meteoriti, di cristalli, di tempeste solari; il tutto attraverso i ricordi di Qfwfq, protagonista di quel mondo assieme alla sua incredibile parentela. Suggestioni scientifiche che si trasformano in visioni fantastiche, una scrittura che fa ricorso alle immagini, tipica del mito, che Calvino fa rinascere “dal linguaggio più lontano da ogni immagine visuale come quello della scienza d’oggi.” E così, dietro lo sguardo sempre ironico e affascinato dell’autore, scenari stellari, flussi elettromagnetici, nubi di idrogeno, quanti, quasar e pulsar diventano ambiente e nello stesso tempo protagonisti dei diversi racconti.
La scelta registica è caduta su due episodi de “Le Cosmicomiche”: “Sul far del giorno” e “I Dinosauri”. Il primo narra delle prime sconvolgenti variazioni nell’universo fino alla comparsa della luce solare. Il secondo ci sposta in una preistoria per noi più “quotidiana” e ci parla dell’estinzione e della sopravvivenza di quella specie. Le Cosmicomiche nascono dalla sfida di coniugare l’esattezza alla leggerezza e la semplicità della favola alla precisione del linguaggio, lasciando allo spettatore, così come Calvino fa con il lettore, la completa libertà di riattivare la sua personale capacità mitopoietica e di crearsi, in un presente in cui anche la fantasia soffre di omologazione, una propria personale “cosmologia portatile”.
Montecristo imprigionato I suoi tentativi di fuga sono un flusso ininterrotto di pensieri e di immagini, di calcoli e ipotesi, di riflessioni e soluzioni per evadere insieme al suo compagno di prigionia, l’abate Faria, suo alter ego, che scava ininterrottamente cunicoli e gallerie, alla ricerca di uno spiraglio d’una via d’uscita.
Una partitura per attore, voce e movimento dove i corpi traducono le parole del racconto attraverso geometrie che si sviluppano e ridisegnano lo spazio, fino a ricreare la fortezza di IF sull’isola prigione di Marsiglia.
La metafora della prigione per scandagliare il concetto di Libertà, parola sempre più fragile, che nasconde sempre più insidie, tanto facile da pronunciare quanto complessa nella sua attuazione.
Tra una libertà limitata e una carcerazione effettiva la differenza è una questione formale ma ciò che le accomuna è il desiderio di evasione. Tutto in una prigione è vagliato, misurato, analizzato maniacalmente da chi vuol evadere. Una cella è il laboratorio delle possibilità di fuga e il carcerato non è un romantico, è uno scienziato. L’esterno, il fuori, è uno degli infiniti dettagli che influiscono, positivamente o negativamente, sull’impresa. Paradossale parlare di evasioni in un’epoca affollata dalle libertà? Oppure dovremmo iniziare a valutare seriamente le alternative di fuga?