Catalyst > “Garò, una storia armena” recensione di Francesca Santi

Garò, una storia armena

Non c’è futuro senza memoria

Lo spettacolo “Garò – una storia armena”, si apre in un’atmosfera buia, con le luci del palcoscenico rivolte verso il centro, dove, per un’ora di monologo, si appresta ad arrivare il nostro narratore, il quale ha il compito di accompagnarci attraverso la storia di Garamed Surmelian, detto Garò.

L’atmosfera rimane soffusa, il narratore si avvicina, resta al centro e comincia a raccontare la sua storia. Racconta di aver incontrato Garò, il nostro protagonista, che però, a causa di una pallottola inflittagli dai turchi, ha perso la memoria e non ha più ricordi della sua vita. Il narratore, si propone di far riaffiorare i ricordi di Garò attraverso il racconto della sua vita, dalla nascita, fino a una fine che si prefigura come fine, ma che invece non è che l’interruzione forzata di una vita.

Attraverso il racconto, noi spettatori scopriamo che Garò nasce in un piccolo villaggio di montagna, Shevan, dove è difficile arrivare a causa degli impedimenti naturali del luogo. Vengono presentati i genitori del nostro protagonista, gli abitanti bizzarri di Shevan, la bisnonna di Garò, che viene tratteggiata come una simpatica vecchietta sempre seduta, con la sua coperta sulle ginocchia, il bastone e l’età che si aggira intorno ai mille anni. Per la nascita di Garò, la madre incita il padre ad organizzare una grande festa, per invitare tutti gli abitanti del luogo a festeggiare il lieto evento ed è qui, tra le grandi quantità di cibi che vengono elencati, i nomi dei vari personaggi e le caratteristiche degli stessi che sfilano nella casa dei Surmelian, che si insinua per la prima volta la parola: turchi. La madre Sovinar dice espressamente che le feste organizzate dagli armeni sono molto allegre, perfino più allegre di quelle dei turchi. A questo punto, forse come anticipazione di quello che sentiremo in seguito, il nemico appare allo spettatore come una presenza lontana, ma costante.

La nascita del piccolo Garò è festeggiata, così come era usanza e anche le tappe successive della sua crescita sono oggetto di celebrazione. Quando il piccolo riesce a camminare, siamo resi partecipi di un curioso rito di passaggio, quasi di una introduzione nella società. A seconda della direzione intrapresa da quei primi passi incerti del bimbo, è sugellato il suo futuro. Colpisce soprattutto la credenza che, se il piccolo Garò fosse uscito dalla stanza nella quale si teneva la celebrazione, sarebbe diventato un viaggiatore, che avrebbe fatto fortuna fuori da Shevan. Il padre di Garò, vedendo che il piccolo sta per uscire non può non esprimere la sua gioia per la piega che potrebbe prendere il futuro del piccolo, eppure, mentre siamo tutti pronti a sentire che Garò è uscito, che forse, questo vorrebbe dire la sua emancipazione rispetto al mondo in cui è nato, ecco che il racconto del nostro narratore si chiude dicendo che Garò interrompe la sua camminata sulla porta, proprio al limite dell’uscita e che, nonostante gli incitamenti del padre, non sarebbe più andato avanti. Cosa dire quindi di questa decisione, se possiamo definirla tale in realtà. Il piccolo rimane sulla soglia, vede il mondo di fuori, ma non riesce ad entrarvici. Garò vede l’esterno, guarda davanti a sé, ma non riesce, o non vuole che anche il suo corpo, la sua persona fisica si trasporti altrove. Tutti coloro che erano stati invitati per assistere a questo rito di passaggio, di assegnazione di futuro quasi, rimangono delusi. La bisnonna addirittura suggerisce che il nipotino, sarebbe diventato uno spione. Solo il prete, suggerisce che Garò, per come erano andate le cose, sarebbe diventato un poeta, con il conseguente malcontento della madre di Garò, Sovinar, che si professa disperata, perché un poeta non avrebbe mai potuto provvedere al mantenimento di una famiglia.

Quasi si instaura un parallelo col mondo di oggi; sebbene non possiamo immedesimarci in tradizioni e culti non autoctoni e che magari, ormai ci sembrano superati, tuttavia il nostro mondo moderno non fa altro che ripetere più o meno esplicitamente quello che va dicendo la madre di Garò. Ci fa sorridere certamente la credenza radicata che la direzione presa dai passi di un bimbo che ha appena cominciato a camminare, a seconda di dove si fermerà possa definire il suo futuro, eppure il risultato non cambia. Se all’inizio, come spettatori ci sembra una cosa assurda, dobbiamo però ricrederci e constatare che qualunque sia l’epoca, c’è una cosa che raggruppa su di sé molte preoccupazioni e afflizioni di una famiglia, vale a dire il sostentamento legato al possesso o meno di soldi. In tutto questo, il sindaco di Shevan, presente alla celebrazione, già comincia infatti a storcere il naso alla prospettiva di far sposare sua figlia con un poeta, ma è provvidenziale l’intervento del padre di Garò che riesce a convincere il sindaco adducendo vantaggi sui pascoli delle bestie, ma soprattutto promettendogli che gli avrebbe prestato il gallo Abdulamid, chiamato col nome del sultano turco che tempo prima aveva fato trucidare 250.000 armeni. Il sindaco, quindi, viene convinto definitivamente dalla prospettiva di poter finalmente tirare il collo al gallo, qualora non fosse stato più utile, in una prospettiva di vendetta mutilata.

Mentre Garò cresce, assistiamo ai giochi tra lui e i bambini di Shevan. Veniamo informati che gli armeni non portano armi e che quindi vengono sconfitti sempre dai bambini che impersonano i turchi o i curdi, tranne quando partecipa al gioco anche Toros, il figlio del sellaio del villaggio, che, ignorando che si tratti di un gioco, si preoccupa di distribuire botte vere a tutti coloro che gli andavano incontro armati con scimitarre giocattolo. Grazie al racconto di questo gioco, capiamo che gli armeni sono un popolo pacifico, indifeso, non pronto assolutamente ad un ipotetico attacco, forse perché non può credere che gli possa venir fatto del male. Procedendo, man mano che Garò cresce, si vede sempre più avvicinarsi, attraverso la narrazione, il momento del matrimonio tra lui e la figlia del sindaco. Questo evento potrà avere luogo però, soltanto quando alla bambina compariranno le prime mestruazioni. Anche qua, come per il fantomatico rito di passaggio di Garò, qua assistiamo a un altro. Di nuovo ci viene da sorridere che questo evento venga interpretato come il segnale che una ragazza è pronta per prendere marito, eppure resta sempre un po’ l’amaro in bocca pensando al confronto con la modernità in cui siamo immersi e che ci circonda. Ricordo pure io, lo strano fastidio, la vergogna e la sensazione che una mia parte intima fosse rubata e che fosse oggetto di speculazione, quando mi venivano poste domande a riguardo.

Comunque, viene spontaneo mettere a confronto i due rispettivi ambiti in cui viene a concentrarsi l’attenzione delle persone che circondano questi due personaggi. Per quanto riguarda Garò, egli viene visto agli occhi degli altri secondo ciò che avrebbe intrapreso nel suo futuro di uomo, per la sua capacità o meno di portare un guadagno, insomma, l’attenzione delle persone riguarda la carriera che il nostro protagonista potrebbe intraprendere o meno. La bimba del sindaco, Arpik, invece, dall’altra parte, viene osservata attraverso il suo corpo. La grande attenzione delle persone che la circondano, di sua madre, viene focalizzata attraverso gli sviluppi del suo corpo e di come questo possa essere o meno adatto per l’unico scopo che viene fissato per una ragazza: il matrimonio. Ripeto, in entrambi i casi, le modalità di decisione magari ci fanno sorridere e ci appaiono sommarie, eppure, sotto sotto, sorridiamo molto di meno quando pensiamo che è cambiato ben poco anche oggi. Spesso succede che, anche adesso, sia sotto osservazione il corpo delle ragazze o donne e non quello maschile, il cui fulcro di attenzione invece diventa il futuro in senso lavorativo.

A questo punto viene celebrato il matrimonio, abbiamo di nuovo una grandissima festa, vengono uccise per l’occasione tantissime bestie. Si affaccia, sempre in maniera discreta ma presente, il problema del pagamento della tassa matrimoniale allo sceicco curdo. Si spera in una grazia o in una dimenticanza, perché tutti i soldi possibili erano stati spesi per allestire la cerimonia. In questo momento, si affaccia alla memoria mutilata di Garò, il ricordo del rito, della creazione del suo legame con Arpik, la mano data al padre di lei, e anche, nel gran frastuono generale, dell’arrivo di 100 cavalieri curdi armati di fucile. La sposa viene gettata sul cavallo di uno di questi e, veloci come sono arrivati, essi spariscono al di là delle montagne portandosi dietro la sposa. Garò si ricorda dei soldi pagati per il riscatto, dell’attesa, della disperazione e del ritorno della sposa, che poco dopo rimane incinta. Il nostro protagonista ricorda fin qui, ma, come invece ci dice il narratore, Garò non ricorda che Arpik morirà di parto e con lei, il loro bambino. Vediamo come il narratore sia incerto se continuare o meno a raccontare a Garò la sua storia, quello che avrà da dire in seguito sarebbe stato ancora più doloroso degli eventi già narrati. Ma l’anima di Garò vuole la verità e qui, si assiste quasi a un parallelo edipico, cioè il protagonista della sventura vuole conoscere la sua sventura e perché soffrirà. Il narratore assurge quindi quasi all’identificazione col profeta, con l’indovino, con Tiresia che dice: questo giorno ti darà la vita e ti distruggerà.

La narrazione perciò prosegue. Viene raccontato come Garò, nel giorno del 21 gennaio, giorno stabilito in cui tutti i ragazzi che cercano una ragazza si sarebbero dovuti recare al pozzo, sia andato e abbia seguito l’uccellino che aveva preso la sua briciola di pane. L’uccellino l’avrebbe guidato verso la sua nuova sposa, egli cammina per ore finché non arriva in un villaggio completamente bruciato. Arrivato all’ultima casa del villaggio, gli scorge il corpo del suo uccellino, morto di freddo e sente un piagnucolio, che si rivela essere quello di una bambina ferita dalle fiamme. Garò la porta via, la chiama Anaith e le promette che un giorno la avrebbe sposata. Una volta tornato a Shevan la affida alle cure di una coppia che non aveva avuto figli e che accetta il futuro matrimonio tra i due. Intanto, a Shevan, la notizia dell’attacco al villaggio vicino si diffonde e porta scompiglio, ci si chiede se e quando la stessa sorte possa accadere anche a loro.

Abbiamo qua, nella narrazione, uno iato di ben 16 anni, dove ci viene detto che Garò va in America per lavorare, per poi tornare, dopo tutti quegli anni, proprio in Armenia, proprio a Shevan, sposando Anaith, compiendo una scelta, agli occhi di tutti irrazionale, eppure è proprio qui che lo spettatore si ricorda del rito di passaggio iniziale, quando il Garò bambino arriva alla soglia della porta, ma rimane fermo lì, immobile e si rifiuta di andare avanti. C’è il tema del viaggio e il tema del nostos, che viene fatto presente in maniera forte agli occhi dello spettatore.  Il viaggio sì, ma soprattutto il ritorno alla propria terra, alle proprie tradizioni e alle proprie promesse.

A questo punto della narrazione comincia a profilarsi all’orizzonte un qualcosa di più grande per i personaggi stessi che sono stati presentati finora, si comincia ad avvertire un qualcosa che va al di là di tutti loro e che invece riguarda quelli che sono tenuti a prendere delle decisioni. Veniamo accompagnati, attraverso il racconto allucinato delle strategie messe in moto dal governo turco per accusare gli armeni di star fomentando una rivolta, in un momento già duro e difficile da sopportare come la grande guerra. La soluzione finale per il popolo armeno è già decisa dal governo turco: scoprire in maniera fasulla dei depositi di armi nei villaggi armeni e cominciare la deportazione di tutti, uomini, donne e bambini. Il governo centrale turco comincia a diffondere telegrammi ai governatori locali con il preciso ordine di considerare obsoleti i diritti di ogni armeno. Un po’ come sappiamo per quanto riguarda la più recente shoah, viene poi ordinato ad ogni armeno di prepararsi a partire, di prendere poche cose, perché sarebbero stati condotti su terre fertili e che a ciascuna famiglia sarebbe stato dato il necessario per sopravvivere.

I turchi riescono ad arrivare pure in un posto sperduto come Shevan, entrano nelle case, cercano armi che non ci sono e di nuovo, viene in mente quando viene raccontato dei piccoli abitanti del villaggio che giocavano a turchi, curdi e armeni, dove questi ultimi perdevano sempre perché non portavano armi, nemmeno per gioco. Entrano pure in casa di Garò e Anaith, lui viene picchiato e trascinato fuori, dove comincia la marcia con tutti gli altri uomini verso il deserto, promessa agli occhi del mondo di felicità, ma invece, nella realtà prospettiva di fucilazione. A questo proposito mi viene in mente un racconto all’interno del libro “Il bene sia con voi!” di Vasilij Grossman, il racconto intitolato “il vecchio maestro”, quando i protagonisti ebrei si trovano in un’analoga situazione agli armeni descritta in questo dramma. “…sapevano, intuivano cosa li aspettava. Ma in cuor loro non ci credevano, troppo terribile appariva lo sterminio di un popolo intero. Sterminare un popolo. Nessuno poteva crederci in cuor suo.” (pag 35). E così anche il cammino verso la morte, che per gli armeni si consumerà nel deserto, mentre per gli ebrei del racconto di Grossman, ai piedi di un fosso, entrambi per fucilazione.

Alla fine, veniamo a conoscenza pure della fine della seconda moglie di Garò, lasciata morire nel deserto dopo che un soldato turco le aveva lacerato la pancia con una scimitarra, sghignazzando con gli altri mentre lei moriva dissanguata e accanto a lei il piccolo che doveva partorire piangeva. Garò sarà soccorso da una donna turca, curato, ma ne uscirà avendo perso completamente la memoria. Il bambino invece, sarà salvato da una coppia turca che passava per il deserto, che riesce a vedere, in quella piccola vita strappata a morte certa in quella desolazione, un testimone fondamentale di quello che è successo, testimone anche, oltre che dell’orrore, del bene che è rimasto, testimone che non tutti gli uomini sono cattivi. Il piccolo figlio di Garò diventa, incarna il simbolo della rinascita, il piccolo seme dal quale potrà nascere l’albero della verità attraverso la sua testimonianza, perché, come conclude il nostro narratore davanti a una platea muta e in ascolto, in un silenzio carico di attesa, senza memoria, non c’è futuro.


Recensione a cura di Francesca Santi