Catalyst > “L’ho inventato io” recensione di Giulia Monastra

Meucci e la riflessione sull'utilizzo della sua scoperta

Sarà progresso o mezzo per frivole chiacchere?

1871, Ester Meucci  (Alessandra Comanducci) comunica tramite telefono col marito Antonio Meucci (Paolo Ciotti) al piano di sotto del loro cottage newyorkese. Sono i protagonisti dello spettacolo “L’ho inventato io!” ideato da Riccardo Rombi, per una coproduzione della compagnia Catalyst e il Cantiere Obraz.

Il “genio” Antonio Meucci, come sembra canzonarlo la moglie, è  l’inventore del telettrofono, un apparecchio in grado di trasmettere la voce per via elettrica, l’assoluto antenato dei nostri cellulari che proprio all’inizio dello spettacolo ci viene chiesto di spegnere. Il fiorentino Meucci fu un eclettico dell’invenzione, fra le tante, oltre al prototipo del telefono, troviamo la ricetta di una vitamina effervescente, della quale la stessa Ester si fa cavia, la creazione di oli per vernici, condimenti per pasta e riso e le candele steariche.

Partiti da San Frediano, dopo aver lavorato e condotto esperimenti nel Teatro fiorentino della Pergola, dopo aver trascorso quindici anni al Teatro Nazionale dell’Avana, dove Ester fu direttrice della sartoria, i coniugi Meucci provano a sbarcare il lunario negli States. Ma ahimè la creatività del genio si scontra con una quotidianità fatta di stenti: mancano i soldi per mangiare e riscaldarsi e in più, Ester ormai sempre più affetta da una malattia invalidante per gli arti, si ritrova in sedia a rotelle e incapace di cucire. Poi ci sono i soldi donati alla causa dei rivoluzionari garibaldini, Meucci fu infatti da sempre carbonaro e amico di Garibaldi. In più c’è quella odiosa rata del brevetto che poggiata sul comodino, “chiama” Antonio dal piano di sopra.

L’invenzione che forse più ha rivoluzionato le nostre vite, infatti, venne attribuita nei secoli all’americano Alexander Graham Bell: Meucci depositò, sì, i disegni e le spiegazioni all’Ufficio brevetti di Washington, ma non fu in grado di pagare i dollari necessari per il caveat del telettrofono. E così è stato sinché nel 2002 una sentenza del Congresso degli statunitense ha riconosciuto la paternità del telefono da parte di Antonio Meucci.

Così sulla scena vediamo i coniugi scherzare e discutere, in un fiorentino dialettale in cui il pubblico si riconosce, al piano terra del loro cottage – che sul palco prende le forme di un laboratorio fatto di cavi e ingranaggi – ora cullandosi nel ricordo dei felici giorni all’Avana, ora rivolgendo lo sguardo ad un futuro che appare incerto. È proprio in quel momento che Meucci si chiede: come mai verrà impiegata la sua invenzione negli anni a venire? Sarà strumento del progresso o mezzo di frivole conversazioni? Lo spettacolo ci fa riflettere ridendo: da un lato sono rappresentati gli alti ideali di libertà di espressione, progresso e uguaglianza, di cui Meucci è convinto sostenitore, dall’altro, la dura realtà dettata dal motto “business, profit, money”. Realtà che costò a Meucci il brevetto del telettrofono, e che è motivo sul palco dell’urlo rivendicatore: “L’ho inventato io!”.

Lo spettacolo si concentra molto sulla dinamica familiare dei due, che seppur godibile e divertente, lascia poco spazio a curiosità storiche o tecniche riguardanti il telettrofono, che lo spettatore forse si aspettava. Gli ideali sono al centro della rappresentazione, insieme alla parabola di riscatto che – sappiamo – nel 2002 aver finalmente reso giustizia al genio Meucci.


Recensione a cura di Giulia Monastra